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ADOZIONE E SCUOLA - INTERVISTA A IVANA DE BONO

Adozione e scuola. Istruzioni per l’uso Intervista a Ivana De Bono

Fonte:

L’articolo è stato pubblicato sul N° 7/8 – 2009 della rivista semestrale  “Trasformazioni”, organo della Società di Psicoanalisi Interpersonale e GruppoAnalisi S.P.I.G.A. ed è liberamente scaricabile.

http://www.spigahorney.it/IT/1-Spiga-Horney/6-Rivista/108-2009-N7-8.html

 

 

Nella storia di una famiglia adottiva la scuola ha un’importanza cruciale. È lì che molti nodi vengono al pettine, che i bambini prendono atto fino in fondo della propria diversità, ed è lì che rischiano di arenarsi se gli insegnanti – alleati con i genitori – anziché aprirsi a questa diversità si chiudono nelle loro preordinate certezze. Una chiusura che tradisce la paura di navigare nel mare aperto e sconosciuto dell’adozione e di cui sono testimonianza i numerosi episodi di inspiegabile cecità e rimozione. Sono assai frequenti, ad esempio, i casi in cui gli insegnanti chiedono agli alunni di portare documenti della loro prima infanzia, dei loro primi giorni di vita o addirittura della mamma incinta, pur sapendo che fra quei bambini ce n’è uno che quelle prove, quelle fotografie, non può averle. Di questo parliamo con la dottoressa Ivana De Bono che ormai da molti anni si occupa di formazione nell’ambito dell’adozione.

 

Il programma dei primi anni di scuola elementare prevede spesso di far raccontare ai bambini la loro nascita, le loro origini anche biologiche, la loro storia. Secondo lei quale dovrebbe essere il modo corretto di affrontare questo passo nel caso in cui ci sia uno o più bambini adottati in classe?

In effetti troppo spesso mi viene riferito da genitori adottivi che al loro bambino è stato chiesto di portare in classe la sua foto di nascita oppure oggetti o documentazioni riguardanti il suo primo periodo di vita, che ovviamente mancano. Sembra assurdo, ma accade più spesso di quanto si pensi.

Il programma di seconda elementare prevede infatti che nella materia Storia i bambini apprendano il concetto di fonte per comprendere come avviene una ricostruzione storica; e ai bambini viene quindi chiesto di andare alla ricerca di informazioni sulla propria storia utilizzando fonti orali, materiali, scritte e iconografiche. Tradotto, significa che il bambino ritorna a scuola dopo aver raccolto i racconti dei parenti e gli oggetti del proprio passato – il ciucciotto, una tutina, un bavaglino, … – fino ai documenti scritti e alle foto. Va da sé che si può far capire ad un bambino il concetto del tempo che passa e di fonte, sempre partendo dalla sua esperienza, chiedendo informazioni sul suo recente passato, senza necessariamente chiedere il certificato di battesimo, oppure quanto pesava al momento della nascita o addirittura l’ecografia di quando era nella pancia.

Francamente mi riesce oltretutto difficile pensare ai bambini che arrivano in gommone nel nostro paese diligentemente provvisti di tutto questo. Eppure ci sono ancora testi scolastici di seconda elementare in cui vengono fatte richieste del genere e gli insegnanti, anziché aderire a questi testi o appellarsi rigidamente ad un mal interpretato programma ministeriale, dovrebbero invece tenere conto della specifica storia di ogni bambino che hanno in classe, non solo quello adottato.

Con questo voglio dire che le difficoltà che pongono a noi adulti i bambini adottati ci danno la preziosa opportunità di comprendere davvero i bisogni e i diritti di ogni bambino, di comprendere che in un gruppo-classe la diversità può essere fonte di ricchezza e non sinonimo di mancanza o di inferiorità. Per fortuna ci sono anche insegnanti capaci e attenti, però troppo spesso sento dire da molti docenti (ma anche da genitori adottivi e talvolta anche da operatori del settore) che un bambino adottato ha il diritto di essere considerato alla pari dei suoi compagni equiparandolo frettolosamente, così, a quelli nati e cresciuti nella loro famiglia biologica. Temo che così venga commessa un’ingiustizia che ha più a che vedere con le paure degli adulti che con il rispetto del bambino. Non possiamo depotenziare tutto il valore dell’adozione, la fatica dei passi fatti e del lungo e spesso doloroso lavoro di sostegno e di riparazione che sono chiamati a svolgere i genitori adottivi che, caso mai, devono necessariamente avere qualcosa in più e non in meno rispetto ai genitori biologici. Una equiparazione fra queste due diverse forme di genitorialità, in particolare nei primi anni successivi all’adozione, significa privare il bambino della specificità della sua storia; una specificità che va riconosciuta anche ai suoi genitori, che non devono essere messi nella difficile e pericolosa posizione di doversi per forza identificare con un’immagine di se stessi impossibile da raggiungere.

 

Che consigli dà ai genitori di figli adottati che stanno per iniziare la scuola (o la materna). Cosa dire agli insegnanti? E ai figli?

Credo sia importante avere un iniziale colloquio con i docenti per metterli al corrente della loro storia familiare e soprattutto del modo e del linguaggio utilizzato con il bambino per affrontare la sua storia. E vorrei sottolineare che è una storia che non parte dal momento dell’adozione, perché c’è un prima che è fondamentale e, come dicevo, non può essere ignorato, né dai genitori, né dagli insegnanti. Poi è importante mantenere il filo della comunicazione per poter cogliere eventuali segnali di disagio ed essere pronti, insieme, ad intervenire in modo armonico.

 

E come dovrebbero intervenire quei genitori ai cui bambini è stato chiesto per esempio di portare la foto della mamma con la pancia?

Ragionevolmente non si dovrebbe arrivare a questo, se fra i genitori e l’insegnante si è già costruito un dialogo basato soprattutto sulla volontà di non negare la particolare storia del bambino. Ma se accade, la miglior cosa è stare accanto al proprio bambino, cogliere l’occasione per mostrare che se ne può parlare e, insieme, si può trovare una soluzione adeguata e rispettosa della verità. Il bambino, sentendo che il genitore non va in pezzi e che riesce a contenere dentro di sè il momento di difficoltà, apprende che un disagio può essere affrontato e che vicino a lui rimane accanto, sempre, la sua principale figura di riferimento.

 

Come dovrebbero essere preparati o istruiti i compagni di scuola dei bambini adottati?

Parlare di adozione in classe è una preziosa occasione per far capire ai bambini che esistono vari modi di essere famiglia. Non è che agli altri bambini deve essere detto o insegnato qualcosa di particolare. Certo, va saputo spiegare che cosa è l’adozione, con parole comprensibili a tutti i bambini, ma è comunque primaria la capacità emotiva e relazionale dell’insegnante. I bambini apprendono guardando gli adulti. Se l’insegnante avvicina con serenità e in modo naturale l’argomento, se soprattutto per un proprio disagio non evita domande, curiosità o affermazioni che conseguentemente potrebbero determinare disagio nel bambino adottato, comunica già che la storia del bambino non è fonte di pericolo, non fa paura, non fa allontanare nessuno, ma anzi è degna di attenzione e può essere condivisa e valorizzata. Credo che questo sia un bell’insegnamento per tutti i compagni di classe. Ciascun bambino ha certamente una sua storia, qualche insicurezza o difficoltà; allora, osservando il comportamento dell’insegnante con il proprio compagno, ha l’occasione di apprendere che anche lui al momento giusto potrà essere ascoltato. È un messaggio di fiducia.

 

l casi più gravi o più emblematici che le sono capitati?

Purtroppo non sono pochi. Qui vorrei ricordare, sempre a proposito di foto, il caso di un bambino che aveva cambiato scuola perché fra la madre e le insegnanti non si era creato un corretto dialogo sul tema dell’adozione. Nella nuova scuola la madre scelse quindi di non informare le insegnanti e, al momento della fatidica richiesta di portare la foto di nascita, diede al figlio una foto che ritraeva da neonato il cuginetto. Non sto qui ad addentrarmi nei vari motivi che hanno portato a questa scelta, perché comunque il denominatore comune è dato sempre dalle paure e dalle difficoltà degli adulti, siano essi genitori o insegnanti. Sta di fatto che il bambino da quel giorno cominciò a non stare più fermo, a girare per tutta la scuola; e a casa cominciò a nascondersi dappertutto finché un giorno riuscì a dire “io non sono mai nato”. È un esempio doloroso che ci deve far pensare.

 

L’atteggiamento più comune verso i bambini adottati, anche fra gli insegnanti, è quello di considerarli uguali agli altri, come se accettare la loro diversità significasse discriminarli. Cosa ne pensa?

Come dicevo prima, l’adozione ha innanzitutto una valore riparativo che non possiamo assolutamente disconoscere. Stiamo parlando di bambini che sicuramente hanno subíto un abbandono. Considerarli uguali agli altri significa impedire loro di risanare quelle parti ferite che già in passato hanno dovuto negare dentro di loro nel tentativo di sopravvivere ad un dolore troppo grande rispetto al quale sono stati lasciati soli. Non possiamo convalidare questa loro difesa facendo altrettanto, lasciandoli soli ancora una volta, ignorando che questo dolore continua comunque ad agire inelaborato dentro di loro. Proviamo a metterci davvero dalla parte del bambino, anziché far prevalere le paure di noi adulti e il nostro bisogno di ricondurre ogni fenomeno entro schemi conosciuti, prevedibili e per questo tranquillizzanti. Anche il bambino ha bisogno di essere tranquillizzato, soprattutto rispetto a quella valanga di emozioni senza forma che in passato lo hanno travolto e che sono rimaste sconosciute e pericolose dentro di lui perché nessuno, prima, ha dato loro un nome. Per questo il bambino ha bisogno di un adulto capace di accogliere i suoi vissuti, un adulto in grado di restituirglieli in una forma più comprensibile per lui. Se invece il bambino avverte che il suo passato doloroso fa allontanare l’adulto, allora avrà la conferma che dentro di sé c’è qualcosa di “sbagliato”, di inavvicinabile, che ha già fatto “fuggire” le sue prime figure di riferimento. E così il bambino continuerà ad essere solo, a fuggire sempre di più da quella parte di sé che gli fa troppa paura. Per fare un esempio, non si può aspettare che sia il bambino, specie se piccolo, a formulare domande per parlargli della sua storia; è un compito troppo grande per lui, che richiede proprio quella capacità di tradurre le emozioni in pensieri che non ha appreso dalle precedenti figure di riferimento. È l’adulto che deve aiutare il bambino a dare una forma ad un vissuto che è già dentro di lui, ma che è stato elaborato in modo distorto.

 

Molti insegnanti dicono: ci sono troppe diversità, adottati ma anche stranieri, disabili ecc.. Non si può approfondire ogni specificità, non abbiamo il tempo e gli strumenti. Come risponderebbe?

Nei corsi per insegnanti che ho avuto modo di fare sul tema dell’adozione ho toccato con mano che questo argomento è veramente utile per poter in seguito affrontare anche altre situazioni particolari. Secondo me, ormai non è più sufficiente fornire competenze specifiche, di tipo culturale e didattico, che creano un appesantimento dei saperi. Gli insegnanti non possono essere tuttologi e anche a loro va riconosciuto il bisogno di uno spazio che sia di contenimento e di riflessione sulle difficoltà relazionali che incontrano nella loro professione. Mi sembra quindi più importante offrire ai docenti una formazione che comprenda l’acquisizione di competenze emotive e relazionali utili nei vari ambiti.

 

Secondo la sua esperienza che tipo di resistenza sviluppano gli adulti, anche inconsciamente, verso i bambini adottati?

C’è la tendenza a normalizzare l’adozione prima possibile, ad aspettarsi che in breve tempo la famiglia adottiva sia come le altre, come se la specificità della vicenda adottiva, il passato del bambino e quello dei suoi nuovi genitori fossero qualcosa da superare in fretta, che non deve disturbare troppo. Ciò che è diverso e sconosciuto tende ad essere avvicinato ed assimilato se viene ricondotto al simile e al già conosciuto. Purtroppo è un atteggiamento che ho trovato anche fra gli stessi operatori del settore, almeno quelli che ritengono che la famiglia adottiva debba inserirsi prima possibile nel contesto sociale, come qualsiasi altra famiglia. A volte gli stessi genitori mi dicono “ma è passato più di un anno dall’adozione, ormai il bambino dovrebbe essere tranquillo, non pensavo ci volesse così tanto per rassicurarlo”. E infatti non possiamo pensare che con l’atto giuridico dell’adozione e con il tanto amore il più è fatto. Non dobbiamo dimenticare il senso profondo che ha l’adozione, che significa innanzitutto restituire al bambino il senso di continuità nella discontinuità della sua esistenza, il senso di unità ed unicità nella frammentarietà di sé. Si tratta di una riparazione profonda, di una costante e continua ricostruzione nel tempo di quella fiducia di base che in questi bambini è stata precocemente lesa. Occorre, appunto, tempo. E spesso le difficoltà o i momenti critici avvengono dopo che il bambino ha cominciato ad avvertire che della nuova famiglia si può fidare, che non lo lascia se ad un certo punto, ad esempio, non è più accondiscendente, se mette alla prova gli adulti esprimendo una parte di sé, quella che crede “cattiva”, di cui lui per primo ha paura e che fino a quel momento ha tentato di scindere da sé. È lì che è fondamentale esserci, è lì che lo strumento dell’adozione comincia davvero a dare i suoi frutti. Non è un tornare indietro, ma un andare avanti.

 

Che tipi di sintomi possono manifestare, i bambini adottati di cui non viene riconosciuta la diversità? E perché molti bambini adottati hanno difficoltà nel percorso scolastico?

Più che di sintomi, parlerei di segni a cui l’adulto dovrebbe riuscire a dare un senso e un significato. Per poter aiutare il bambino a dare un nome, una forma alle emozioni che prova, il primo lavoro di senso e contenimento lo deve fare l’adulto dentro di sè. Se l’adulto ha paura e assume per questo un atteggiamento rigido, aderente a norme educative piuttosto che alla vicinanza emotiva e all’attribuzione di senso rispetto ai comportamenti apparentemente inadeguati del bambino, ritorna sul proprio bisogno di certezze e non risponde al bisogno del bambino di essere rassicurato rispetto alla sua paura di essere inadeguato, sbagliato e solo. Molti comportamenti del bambino sono riconducibili a questa paura e alla mancanza di un abbraccio contenitivo, sia fisico che mentale. Per esempio l’autodondolamento, l’ipereccitabilità motoria, la difficoltà a stare dentro i confini e a rispettare le regole, come anche la pseudoautonomia, sono tutti comportamenti che testimoniano il non essere stati contenuti, che si traduce nel bisogno di far da sé per negare l’assenza dell’adulto e tenere lontano il proprio dolore. Molte volte ho visto il ridursi e il trasformarsi di questi atteggiamenti nei bambini, lavorando direttamente con i genitori, aiutandoli a privilegiare la sfera emotiva ed affettiva rispetto a quella educativa, smorzando ed elaborando insieme le loro paure. Se il comportamento delle nuove figure di riferimento ripropone invece antiche assenze, il risultato non sarà altro che l’acuirsi di quei comportamenti destinati davvero a diventare sintomi di un disagio sempre più consistente. Anche nella scuola materna ed elementare è importante che l’insegnante privilegi nella relazione educativa la sfera emozionale ed affettiva. Dobbiamo tener presente che le basi dell’apprendimento si creano nella prima relazione madre-bambino. Per provare a sintetizzare, il bambino acquisisce il piacere di scoprire i suoi stati d’animo a cui inizialmente è la madre a dare un senso; questo favorisce il piacere di conoscere che si tradurrà in fiducia nelle proprie possibilità di aprirsi al nuovo. E imparare significa appunto aprirsi al nuovo, accettando con fiducia il proprio limite di non sapere. Ma un bambino precocemente segnato dall’abbandono non è stato accompagnato nei suoi primi passi di esplorazione del mondo, a partire da quello interno. Le sue emozioni sono rimaste sconosciute, incontrollabili e minacciose dentro di lui. Il nuovo è quindi qualcosa di minaccioso collegato all’abbandono; in lui riscatta la paura di essere scoperto, di essere lui quello sbagliato. Ecco allora che fugge di nuovo da sé. In classe non riesce a stare fermo oppure guarda fuori dalla finestra; è come se fosse perennemente in fuga da quella parte di sé che è rimasta dentro di lui incontrollabile e pericolosa. È possibile restituire fiducia se l’insegnante, alleandosi con il genitore, cerca di stare all’interno della relazione, aiutando il bambino a dare un nome ai suoi stati d’animo, alle sue paure, al suo senso di inadeguatezza. Il bambino potrà così cominciare a percepire se stesso e le sue difficoltà non più come fonte di pericolo, ma come un mondo che, insieme, può essere avvicinato, scoperto e valorizzato.

 

Cosa manca alla nostra scuola: corsi di formazione per gli insegnanti?

Decisamente sì. Anche se nelle scuole cominciano ad affacciarsi i corsi di aggiornamento promossi da associazioni ed enti territoriali, trovo che ci sia ancora molta strada da percorrere. È importante che gli insegnanti conoscano i vissuti di un bambino deprivato ed anche il complesso e spesso sofferto iter che ha portato due adulti a diventare genitori adottivi, ma non possiamo fermarci solo ad un livello di informazione e sensibilizzazione. Occorre andare oltre la sfera cognitiva e accedere a livelli più profondi che comprendano la sfera emotiva e relazionale. Per questo credo siano utilissimi i percorsi formativi di gruppo. Nel gruppo, infatti, l’insegnante può confrontarsi con gli altri partecipanti sul proprio bagaglio di esperienze professionali, di idee, di pregiudizi; progressivamente può avvicinare il proprio mondo interno e le risonanze che l’adozione attiva dentro di lui. Riuscendo a diventare più consapevole dei propri vissuti e delle proprie difficoltà relazionali, il docente può imparare ad interrogarsi sulla qualità dello scambio interazionale ed acquisire una disposizione emotiva più profonda verso le necessità del bambino adottato. Occorre dare valore a tutto questo per far sì che non prevalgano i bisogni e le paure degli adulti, che porterebbero al triste risultato di lasciare in un vuoto carico di solitudine un bambino che ha invece il diritto di essere accolto e accettato per quello che è e non per quello che gli altri vogliono che sia.

 

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